Stamattina, alla manifestazione per lo sciopero generale, le sensazioni erano due, contemporanee e discordanti. Da una parte c’era l’allegria delle persone, un’energia che credo si possa sintetizzare così: siamo nella merda, siamo arrabbiati, stanchi, ma siamo qui, insieme, lavoratori di tutti i generi, dall’amministrazione pubblica agli edili, dai metalmeccanici agli studenti, da Piacenza, da Brescia, da Cuneo, dal Veneto, siamo qui, abbiamo lasciato a casa una giornata di lavoro, la paga per questa giornata, ma siamo qui. Dall’altra parte, la sensazione che ho avuto io, in mezzo a tutte quelle bandiere, quella allegria, è stata una sensazione di solitudine. Sui giornali, in prima pagina, lo sciopero praticamente non esisteva. La città, a parte qualche tram che non passava, correva esattamente come prima. E qui mi spiego.
Io non sono un grandissimo fan della confederazione (che poi Cisl nemmeno c’era). E probabilmente lo sciopero generale l’avrei fatto anche prima e più volte, per molti altri motivi. Faccio parte di una categoria tradizionalmente non sindacalizzata, disinteressata a qualunque tipo di impegno che non sia partecipare ai laboratori per forse essere scritturati. Ma comunque ho deciso di partecipare. Ed è sempre questa la parola. La partecipazione. La condivisione di un tempo e di uno spazio per affrontare la complessità del presente e l’ingiustizia che porta (che poi potrebbe benissimo essere una definizione del teatro, questa). Io non ho nulla a che fare con i problemi dei metalmeccanici che vengono licenziati, non sono un metalmeccanico, non ho parenti o amici metalmeccanici, ma quello che succede a loro deve interessare anche me. Perché nessuno si debba sentire solo nella sua lotta. Perché essere da soli nella battaglia è osceno.
A Roma c’erano i lavoratori della GKN, che hanno mirabilmente unito la loro lotta per il posto di lavoro con un percorso politico e culturale. Questo devono fare i sindacati. Chiamare a raccolta le persone che hanno a cuore il lavoro come momento unico di crescita personale e sociale. In un paese dove lo sfruttamento, il lavoro sotto caporale, le finte cooperative, i subappalti, il precariato sono ovunque, questo deve succedere: pensare al lavoro come percorso di crescita della comunità. Perché questo è comunque il paese dove gli avvocati della GKN hanno preso un premio per aver assistito l’azienda per la chiusura dello stabilimento e l’esubero di circa 430 dipendenti. Io non sono nella condizione dei lavoratori della GKN, dove magari marito e moglie sono stati entrambi lasciati a casa, dove la paura e la rabbia sono enormi. Ma non posso tollerare che si sentano da soli. Perciò, come dicono loro, senza paura, senza vergogna, con tanta rabbia e allegria, INSORGIAMO.
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